Stimolo alla discussione: la parafrasi comunitaria.

Come creare livelli comunitari attivi affinché si favorisca lo sviluppo della “futura base di lotta al capitalismo”.

Come creare processi di conflittualità e di controtendenza nel soggettivismo politico, all’interno della dinamica comunitaria di classe.

“La comunità se non è definibile in un quadro chiaro, sarà marginale nella discussione sul potere”.

L’anomalia strutturale socio-politica urbana che pervade i luoghi entro cui l’individuo esiste, rende questi spazi fisici anonimi e totalmente disarmonici ad un ritmo di vita giusto e pieno. I due elementi che caratterizzano questa discrasia appartengono alle categorie dell’approssimazione e del conservatorismo. Eppure, queste due logiche apparentemente in scontro ma apertamente compenetrate regolarizzano la dimensione dell’esistente in un eterno presente e in una diurnale cronaca di sopravvivenza. Spesso questo esistente, queste vite vissute da contorno intorno alle necessità primarie, sporadicamente si travestono in timidi fuochi ribellistici e immediatamente o quasi vengono dominati in totale sinergia con il potere che opprime queste esperienze primarie autodomate.
Se il soggetto si scorge magari solo un metro fuori l invisibile campo di reclusione costruito intorno a se, sempre se riesce ad osservarlo, porterebbe se stesso “che compone la prima comunità perché è lì che nasce, vive spesso vi muore subordinato agli altri da una quotidianità relazionale vera ma al medesimo tempo parassitaria”, a comporsi innanzi al potere costituito un po per opportunismo un po delegittimando se stesso e le sue seppure insolite alla propria conoscenza, esperienze azioni primarie: che si interfacciano ad esso, il potere, tra forme parabelligeranti e maniere ribellistiche.
Queste circostanze subito o quasi per inerzia farebbero ritornare lo stesso individuo nei perimetri recintati da cui ha tentato di uscire, più per una approssimativa idea/azione di accumulazione che liberatrice ed emancipatrice.
Stabilito un quadro minimo oggettivo, dovremmo per lo meno incominciare a farci domande ed a praticare risposte intorno a quel soggettivismo politico attivo che dovrebbe produrre risposte: come fa l individuo a riconoscersi in un a comunità in lotta(se ve ne è una) se non riesce a valorizzare neanche se stesso? Come fa ad agire in gruppo, in un collettivo politico non subordinato all’emergenza o all’imposizione del momento senza che i suoi intenti sani vengano ricaptati come segnali insani?
La comunità stessa facentesi garante della dimensione collettiva, perché ancora non è soggetto plurimo e organizzato, deve avere la capacità stessa di impossessarvi delle” armi della conoscenza e del sapere”; deve avere la capacità di comprendere l utilità di rendere quasi indolore la via transitoria, che nella essenzialità della gestione primaria possa raccogliersi nel passaggio futuro della ri-costruzione e in prima istanza non sarà percettibile come tale.
Insomma le armi di cui la comunità dovrà poter disporre, per fare i conti con la propria difficoltà secolare di riscatto e, per farne lo strumento di offesa di cui una parte di popolo si doterà per contrattaccare il nemico quando egli sarà pubblicamente declamato.
Liberarsi dai postulati egemonici che riempiono le gabbie invisibili è ancor più difficoltoso se una comunità è priva di senso e d adesione, principi per la quale la stessa, a tratti, batterà segnali diffusi o si rifugia in arcaici modi di interpretazione e salvaguardia del soggetto come individuo singolo e non collettivo.
La comunità nella proposta cittadina, va riempita da una soggettività plurima e diversificata, non più vittima dell’apparire e, nonostante essa debba sopravvivere al passar delle stagioni affidandosi all’ingegno popolare ed all’idioma con cui tutti comunicano fra loro, all’arguzia lessicale che è propria delle popolazioni locali autoctone(almeno per una parte),deve sostenere al suo interno una lotta impari per lo sforzo, non scontata, contro chi la idolatra e ne fa un pezzo da museo, la guarda dall’esterno come le scimmiette prigioniere nello zoo: abolizione quindi nelle comunità dei luoghi dove si nutrano le logiche misteriose che la tengono soggiogata e schiava proprio come quegli animali da esposizione.

Inoltre, se la lingua parlata è in questa logica perversa, fonte di ulteriore discriminazione territoriale, quasi razziale, si dovrà fare molta attenzione al suo uso; sarebbe l ideale che l individuo non resti attratto nella trappola preesistente del vivere l eterna conflittualità dialettica, sterile ed improducente, da sottomesso(la lingua parlata comparata al grado di istruzione conseguito o al grado con cui la si esprime o la si esterna in termini violenti), ma che venga invece calamitato dalla prospettiva di liberarsi da quei postulati egemonici che rendono le comunità simili fra esse ma spente della propria diversità antropologica.
Si ha necessità dunque di non costruire e non stabilire nella relazione dialettica l uso di questa coniugazione lessicale veloce che è la lingua parlata, come un verbo, ma di usarla come azione liberatrice.
“Il potere che detiene scientificamente l arbitrio della vita e della morte, non parlerà mai la stessa lingua del popolo e delle sue sofferenze non ne udrà mai i lamenti”.
Inoltre, bisogna saper riconoscere e sconfiggere queste paure quotidiane vere, latenti, all’interno di un immaginario che deve innanzi tutto cambiare nella relazione fra soggetti che “abitano”pezzi di paese come vicini di condominio nell’apparente rispetto della forma.
Se la sostanza non riesce ad attraversare le comunità, c è sempre il rischio di alimentare processi convulsivi che destabilizzano anziché radicalizzare.
Quindi nella prima comunità va strutturato un lavoro continuo e permanente di scuole anti-sistemiche, culturalmente pronte a favorire lo sviluppo x la radicalità diffusa.
E’ nel concetto di educazione popolare stabile che forma e sostanza si ridanno la mano; è in questo enorme contenitore che ritroviamo la comprensione dei bisogni e le prospettive future presenti e a medio termini.
Inoltre, questo che per il momento resta un concetto, ha bisogno di esplorarsi in una definibile spazialità urbana che non permetta di recludere l intervento sociale politico nelle categorie comprese/sse. Il primo intervento in questo comunità, se stabilmente vuole penetrarvi e concatenarvisi, deve trovar casa logica in una fase progettuale che stabilisca”livelli di formazione educativa” adatti ad interporsi a realtà sociali negative con l espansione del sapere, la reale visione nel vedere il cambiamento; rimettere insomma al centro della discussione pubblica il soggetto come luogo di espansione e non come soggettività perennemente schiacciata da un potere tetragono. Infine, la trasformazione da soggetto individualista ad uno nuovo, totale, collettivista, che autoriconoscendosi unico nella sua particolarità costruttiva(fisica ed intellettiva) possa porgersi agli altri in termini di riscatto, libero nel non subire le scelte massacratorie del potere, non più confinato nel ghetto gretto e meschino.
Per l’ appunto, essendo molteplici tali luoghi di chiusura, si necessita “crearsi, stabilirsi” fuori da questi schemi conservatoristici dettati sostanzialmente dalle condizioni egemoniche imposte dal capitalismo.

La stabilità della compenetrazione educativa, non essendo ferma e per questo in moto, osserva in maniera particolareggiata ciò che intorno accade e di fatto riesce meglio ad interloquire con tracciati educativi plurali per l esercizio quotidiano del cambiamento. Quindi il primo riscatto deve essere inteso realmente, vissuto soprattutto rispetto alla vita sociale economica che ognuno ha e fa.
Riqualificare queste vite, nel primo concetto di esperienza comunitaria significherebbe dar corpo a quelle esigenze sopite, a creare spazi di comunicazioni evidenti anch’essi molteplici e che all’ interno della spazialità urbana riprendano le maglie del tessuto sfilacciato, riaggomitolando nell’idea di costruzione con l altro/a, i fili di un discorso interrotto là dove le prospettive di ognuno si pongano in antitesi alla sussidiarietà al sistema vigente: tesi iper-aggressiva per la quale si patisce e si soccombe.
E’ chiaro come l’esperienza educativa popolare stabile abbia una duplice funzione nella visione lungimirante che essa ha: liberare coscienze e vite nell’esercizio comunitario della condivisione di spazi (fisici e teorici) comuni (scuole di prima alfabetizzazione, autorecupero dei centri storici fatiscenti, riqualificazione di piazze e luoghi verdi, ambientalizzazione del territorio) e creare generazioni future di lotte che possano autogovernarsi dal punto di vista di classe nell’interazione stabile con la comunità, che impara ad essere il luogo in cui il tempo e lo spazio di agibilità si incrociano al bivio quotidiano tra ricatto e riscatto.
Uno stimolo peraltro che se suddiviso a ragione in spazi uguali e radicali, alleggerirebbe il peso che in pochi sono costretti a portare; una croce di acciaio che non schiaccerebbe mai più la idea del sollevarsi dell’essere umano dalla condizione di schiavo moderno in cui egli ricade oggi.
E’ proprio questa schiavitù moderna, questo concetto padronale che va approfondito dentro l’abitare di una comunità che fu, dove enormi fette di popolazioni vengono illuse, intrise di oli profumati e non essenziali, cosparse di cenere calda, invasa da logiche disfattiste e arcaiche al tatto.
Proprio li’ dove gli apparati ideologici sfruttatori detengono il potere materiale si fa in modo che le tante bolle rivoltose scoppino al primo sole d’ inverno: il più tenue e fragile, in egual misura un caldo gradevole che fa accomodare su postazioni silenti intere porzioni di popolazioni.
E’ proprio il sentimento contrario a queste forme di pacificazione che va instaurato nei primi processi di alfabetizzazione. Tale sviluppo dovrà essere non ipotetico ma concretamente necessario a spazzare via la sudditanza dalle scelte imposte nel vincolo quotidiano del ricatto. Questa ipotesi di ragionamento sarà inoltre sviluppata per raggiungere quanta più gente possibile in modo di poter garantire in una fase transitoria di elaborazione e di repressione materiale-culturale, la possibilità di considerare questa prima forma di aggregato disponibile al rivoluzionamento in quanto ne osserva la produzione viva sotto casa per ragione parentale, amicale, pseudocomunitaria. Certi di sentirsi parte attiva di un progetto, di udire inoltre l’altro/a come referente potranno disporre di pratiche solidali e confronto alla pari su dimensioni simili o paraeguali sempre nell’esercizio del cambiamento.

Questa prima fase di elaborazione territoriale viva si doterà di un ragionamento pubblico, tale da permettere alla comunità in lotta una considerazione di se stessa marcatamente più autorevole innanzi al passato: una fase che definiremmo dell’ “autostima organizzata” quindi mai più spontaneismo resistenziale e disorganizzato.
In una fase in cui il sapere diffuso come metodo, potrà fornire gli strumenti ideali al singolo che sentendosi sicuro di se stesso potrà con gli altri organizzarsi collettivamente esercitando il diritto di poter scegliere il meglio per la propria comunità.
Una prima battitura alla delega, una prima fuoriuscita da una situazione di invisibilità parziale o per molte fette di popolazione di totale oscurità nei confronti di ciò che li governa, attraversa e opprime, rendendo gli esseri umani ostili uno all’altro/a nella pingue rincorsa all’accumulazione, ad un futuro che resta presenza scenica al presente. Alimentare quindi un sentimento chiaro nella prima comunità, che possa avere la capacità di difendere lo stile di vita che auspica per se stessa.

1a. LA FASE TRANSITORIA: l’acutezza del dolore, la rinascita dell’individuo……..la classe si evince!
Le situazioni di ghetto in cui la continuità e la sistematicità del potere che opprime negli anni il neocolonizzato, il moderno schiavo, dovranno essere il campo di battaglia educativo-rivendicativo-rivoluzionante dei soggetti in lotta. L’essere qui presenti, significherebbe tracciare una linea continua con ciò che fu: “la ripresa della memoria comune asfalterà la tesi revisionista tanto cara ai detentori del potere transitorio e che tanto inquina i luoghi (i campi di detenzione invisibili dove costringono la gente a vivere) e gli spazi dove a volte ci chiudiamo per sfuggire spaventati da una realtà che è drasticamente vera, articolata in maniera complessa nella diversità antropologica, culturale e sociale”.
Insomma, la “capacità di ritornare ad essere” che solo uno strumento come il recupero della memoria perduta ci potrà ridare.
Perché, in luoghi dove le comunità che interagivano in sintonia con quelle che erano le caratteristiche morfologiche del proprio territorio e da cui traevano sussistenza, identità culturale, adesione e solidarietà non possano ritornare ad essere?
Per quale logica siffatta le comunità non possono ritornare ad essere e diventare sinonimo di cambiamento in meglio?
Per quale motivo suddette comunità che come metodo sceglieranno di autogovernarsi dandosi gli strumenti ideali ed utili, partecipativi e rivoluzionari non potranno ritornare ad essere?

Memoria storica territoriale e cambiamento reale della prospettiva di vita quindi determinanti per la garanzia dello sviluppo futuro.
Recuperare pezzi di “vita comunitaria che furono” è come guadare un fiume. Immergendo la prospettiva proprio laddove la caratteristica della sostanza fluida è più impregnata e densa otterremo progetti piloti e pionieristici che aprirebbero a strade meno battute e qualificherebbero cammini già percorsi.
Segnali economici destabilizzanti produrranno nello spazio urbano vicissitudini non più esterne ma interne alla pluralità del bisogno. Se le linee di confine tracciate dai ghetti verranno riesplorate, sicuramente potremmo essere certi di creare sistemi di economie quotidiane senza confini e marcamenti ma utili alla conformità sociale e territoriale; tale situazione non altererebbe di molto il quadro dipinto dalle forme capitalistiche mondiali. Inoltre, certi di questo, dovremmo esserlo altrettanto nello scorgere un forte senso di fiducia nel soggetto in lotta, coscientemente non schiavo e non più in fuga, ma fermo nella convinzione di dover difendere se stesso come comunità collettiva. Essa, in un momento-secondo(tempo e sazio che si fondono plasmandosi nella dilatazione della ricerca esplorativa umana e che innanzi al tempo di suddetta storia umana si coniugano verbi di sostanza e forma) da micro-residuale si presenterebbe ad una fase trasformante in veste di macro condizione.
Questa macro visione potrà essere utile a distanziarci dall’approssimazione culturale, che lega le popolazioni estromesse a stili di vita e costumi consumati ed abusati. Tali mascheramenti, tali travisamenti opportunistici fanno si che l’essere umano schiavo possa essere identificato come “Piccola Categoria Integrata” e che queste maschere suvvia, indossate involontariamente ma in maniera subindotta, diventino un cumulo di plastica utili al riciclo delle proprie insofferenze e nostalgie legate al ricordo quotidiano.
E’ il ricordo delle azioni collettive che fa rinascere nell’individuo soggiogato la curiosità verso la propria esistenza; il fatto singolo, il ricordo unico, servono a replicare un romanzo di vita sterile ed incongruo e quindi inopportuno per lo sviluppo ulteriore. Qui, forma e sostanza diventano ricordo attivo ovvero tempo e spazio dilatato nella funzione sociale del tracciato evidente.
La stessa non compressione produrrà nelle comunità anticorpi al sistema e già la novella raccontata da tutti a tutti diventa il romanzo di noi altri, i pigri ed i tendenziosi: la fase della rinascita dalla putrefazione.
La fenice che risorgerà dalle ceneri di una comunità passiva e disarticolata già ne diventa il simbolo del riscatto sociale.

1b. L’ EVIDENZA TRANSITORIA, LA SPAZIALITA’ URBANA.
Per porsi in antitesi alla rappresentazione urbana tradizionale si ha necessità, in un ghetto, di favorire la mutazione del rapporto tra colui o colei che vivono questa condizione imposta e lo spazio fisico circostante.
Se quello che ti circonda è un ambiente malato a causa di fabbriche iper inquinanti e discariche che sempre bruciano rifiuti, il nostro porsi sfiderà a viso aperto queste”istituzioni della morte” sul campo della lotta per le bonifiche di questi siti. In codesto modo, per territori abusati da queste forme di assassinio virulento è il passo necessario e primario per poter considerare una reale riqualificazione delle terre e dei mari che li circondano. Altrimenti li stabilmente rimarranno cimiteri tetri e radioattivi dove la luminescenza delle scorie sepolte darà vita a formazioni genetiche nuove che si adatteranno all’esterno e moltiplicandosi ad un ritmo innaturale plasmeranno il territorio tutto.
Se non si potrà reimpiegare la forza lavorativa in opera nelle bonifiche dei siti inquinanti, si otterrà per la comunità esposta un triplice danno: 1)che si continui tutti a morire in maniera esagerata di forme tumorali iperveloci; 2)che si continui a tenere separati il concetto di una qualità della salute elevata con quella della tenuta di un posto di lavoro, che cosi com’è non salvaguarda ne il reddito mensile procapite ne la vita stessa di chi in codeste fabbriche vi lavora; 3)che a causa di questa ultima condizione non si riesce a difendere gli interessi collettivi e non si riesce a condurre un ragionamento pubblico consapevole che esca dall’approssimazione opportunistica e dalla disunione fra soggetti. Inoltre c è da considerare il fatto che come popolazioni si permette la fuga degli zelanti fautori dello scempio cosi impunemente che costoro non pagano pubblicamente per i crimini commessi. E ancora, lasceremmo che essi agiscano in maniera eguale in altre parti del pianeta costruendo ricchezze in nome del profitto di classe padronale. Va reso evidente, svelato, che il fautore dell’antropizzazione del pianeta terra è l’essere umano capitalista e da ciò derivano le nostre condizioni e quelle del mondo in cui viviamo.
Va fatto attraversare nelle comunità il senso delle responsabilità per il prossimo e per il pianeta che ci ospita; e ancora, la disunione va affrontata energicamente : il ragionamento pubblico sarà ancor più alla deriva se vecchi e nuovi contestatori si dirigeranno verso il gorgo imbarcando già acqua, nelle loro piccole barchette, in partenza.
Quante poche miglia marine faranno al largo della costa protetta prima di raggiungere i fondali ormai deturpati?
Quali nuove forma compromissorie di adattamento si sceglieranno se non quelle di posizioni non rivoluzionanti?
Questo potrà non accadere se sono grosse funi tenute da presidi umani a reggere il confronto in mare aperto: un esercizio elastico che ci permetta di guardare al di là del dito che indica la luna e scorgere nell’ipotesi di costruzione di osservatori popolari per la gestione delle bonifiche, una reale e concreta fuoriuscita dal problema…..una luna riflessa sulla marea in movimento.
Se quello che ti circonda è un ambiente privo di conoscenza a causa di scienziati del crimine che tengono in scacco le popolazioni privandole del sapere, dovremmo allora chiederci come sviluppare un discorso completo sulla formazione umana. Vengono sottratte enormi possibilità alla ricomposizione di un altro io non piu qualunquista, superficiale, mansuetamente plasmato, docile e allevato a spolpare ossa ed a ricevere da mani insanguinate piccoli bocconi di inedia e di servilismo. E’ ora che a questa sottrazione si diano risposte complete ed esaustive, partecipate e chiare progettualmente. Possiamo ripensare il concetto dell’alfabetizzazione da un punto di vista orizzontale, di classe, comunitario, collettivista e di espansione di massa. Concependo questa struttura educativa da cui ripartire nelle situazioni marginali che ormai si apprestano ad essere notevolmente superiori a quelle partorite con la cementificazione selvaggia degli anni ’70, chiariremo a chi è nostro interesse rivolgerci nuovamente ovvero a quella parte di popolo a cui sono sottratte possibilità e che vivranno i nuovi ghetti.
Per far si insomma, che le popolazioni estromesse (masse, moltitudini, pluralità eterogenee ,trasversalità, individualità, subalterni) possano rientrare non più dalla porta secondaria ma dal portone principale, quello grande, dove useranno il battente sullo stipite per preannunciare sullo stipite autorevolmente l’ arrivo di così tanta cosciente consapevolezza.
Educare stabilmente una parte di popolo, “gli analfabeti”, come suggeriscono forzatamente le forme di costume è poter riassumere le concause, sintetizzare gli effetti, produrre stabilità emotiva, formare nuove generazioni mai più insoddisfatte. Per educare una comunità in modo che non sia eterodiretta,tele-didattica si ha necessità di non creare ne nuove forme di potere (altri insegnanti) ne replicare vecchie abitudini e forma stantie di estromissione (meritocrazia, categorie stagne, conservazioni e monopolio dei saperi).
Per educare stabilmente la comunità oppressa, si ha necessità di luoghi fisici e mentali: scuole popolari organizzate che emancipano e proiettino i soggetti che da qui acquisiscono forme di sapere libero, nel dibattito pubblico, inoltre che possa dirigere l’ attacco alle istituzioni che falliscono l’ intervento sulla diffusione della conoscenza in modo da ottenere un primo risultato immediato, screditare queste ultime e alterare lo stato di coscienza sopito.
Le forze da ricercare per intraprendere la strada della formazione collettiva, vanno ri/scoperte in seno ad una “dimensione generale di crescita”, considerando che chi agirà per creare ciò, sarà si il valore aggiunto ma dovrà sempre interagire con chi in prima istanza riceve le informazioni, perché colui/lei potrà e dovrà domani continuare questo esercizio di stabilità conoscitiva e cosi via generazione su generazione.
Per educare stabilmente queste forze non si ha bisogno ne di mediazioni ne di compromessi; ciò significherebbe escludere le pratiche instaurate pre-concettualmente in un rapporto non orizzontale quindi tra parti egemoni diverse e non percorse dal medesimo stimolo. All’interno di una programmatica convinzione si potranno scorgere le figure-forze che inizieranno il cammino: giovani universitari, insegnanti in pensione o in attività, figure riconosciute pubblicamente nel quartiere dove si agirà, militanti-attivisti delle lotte sociali, che si senta inoltre stimolato da questo tipo di prospettiva!!!.
Per educare stabilmente pezzi di comunità è necessario fabbricare reti concentriche dove muoversi abilmente per difendere lo stimolo organizzato; uno stile di vita adottato che è e resta il cuore della tela della nostra prospettiva, di essere individui liberi in circostanze libere.

Giuseppe Fonzino Taranto

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