Per l’unità dei soggetti nel conflitto, un contributo del collettivo Terra Rossa

Mai come oggi, la violenza capitalistica si è scagliata contro i movimenti che lottano per una trasformazione in senso egualitario delle società contemporanee e lo fa attraverso le istituzioni pubbliche nazionali e sovranazionali che sono ormai subalterne alla logica dei grandi poteri economico-finanziari.
Se un tempo la politica, e soprattutto la politica degli Stati, era in grado di porre un vincolo alla naturale propensione del capitale ad estendere oltremisura la propria logica distruttiva e di sfruttamento, oggi il quadro è cambiato. I rapporti di forza sociali vedono il capitale prevalere sul lavoro e sulla politica e i movimenti di resistenza non sono in grado da soli di opporre una alternativa in grado di prevalere nel medio-lungo periodo.
La struttura delle opportunità politiche dentro cui un tempo i movimenti articolavano la propria azione si è ristretta a causa di ciò che è stato variamente definito come processo di de-politicizzazione della politica rappresentativa, intesa come quell’insieme di mutamenti delle modalità con le quali viene esercitato il potere, che mettono a distanza il carattere politico del processo decisionale attraverso la rappresentanza, legittimando attori apparentemente meno capaci di testimoniare la presenza del politico.
La politica è meno responsabile, sia delle scelte che influiscono sulla regolazione della società, sia dei loro costi e insuccessi. Le scelte politiche acquisiscono i caratteri della necessità o dell’«inevitabile». La de-politicizzazione si afferma in vari modi. Nel contesto europeo, sono osservabili una de-politicizzazione «governativa», una «discorsiva» e una «sociale».
La de-politicizzazione governativa ha a sua volta varie facce che riguardano prevalentemente la dimensione della comunità politica e i rapporti fra governi e pratiche decisionali. Consiste in spostamenti della competenza decisionale da arene o cariche elettive a sedi presentate come neutrali e obiettive, proprio perché a debita distanza – se non al di sopra – dalla politica istituzionale: banche centrali, autorità regolative indipendenti, agenzie di vario tipo, aziende di servizio pubblico privatizzate e rese dipendenti dal mercato piuttosto che dalle interferenze della politica.
Un altro spostamento di poteri, attuato attraverso decisioni di governi e parlamenti nazionali, avvantaggia attori di scala superiore e non elettivi, come gli organi «forti» (intergovernativi) e le procedure dell’Unione europea (es: Fiscal Compact del 2012) e della c.d. troika (Consiglio e Commissione UE, FMI, BCE), e produce varie forme di subordinazione nei confronti di accordi e norme internazionali, il cui rafforzamento è rimesso ad attori e strumenti tecnici.
Questi spostamenti addensano poteri al di fuori della politica statale, ma sollecitano anche una de-responsabilizzazione degli attori politici che li subiscono, autoassolvendosi così dai potenziali fallimenti di certe azioni. Il meccanismo si riproduce nei rapporti fra nazionale e locale, ad esempio in Italia con il «patto di stabilità interno».
Un’altra faccia è l’adozione di decisioni che rendono impossibile prenderne altre in seguito, legando le mani ai decisori politici, sterilizzando de-facto la possibilità di influenza degli attori del conflitto sociale. Per esempio, costituzionalizzare l’obbligo del pareggio di bilancio depoliticizza la politica economica nazionale, il cui compito si riduce a monitorare e aggiustare la rotta con misure che ricadono all’interno di standard prefissati.

Della depoliticizzazione è parte importante anche la tecnicizzazione dei processi, con l’affidamento di effetti regolativi e di allocazione di risorse a tecnologie come la valutazione, con il suo «primato dei numeri», o a procedure tecnicizzate di supporto alla scelta politica che mettono le scelte al riparo da ideologie e pressioni sociali, come l’Analisi di Impatto della Regolazione, obbligatoria in Italia per ogni legge o la data driven decision, basata sull’idea che chi prende decisioni in ambito pubblico non può ignorare il movimento [data driven innovation] che si sta sviluppando nel settore commerciale. O ancora sistemi esperti, algoritmi, rating, benchmarking.
I «tecnici» (alfieri del capitalismo) diventano attori protagonisti, talvolta chiamati a svolgere direttamente funzioni di «politica depoliticizzata», come nei governi di unità nazionale legittimati in nome di emergenze ed eccezionalità, per i quali non contano la rappresentanza e il consenso, ma le competenze professionali e l’affidabilità per i mercati e le istituzioni sopra-nazionali. Non sono estranei a questa faccia della depoliticizzazione i tentativi di legittimare l’istruttoria delle scelte pubbliche attraverso arene deliberative, regolate sulla base di criteri non-politici, fondati sull’informazione e la conoscenza. Anche in questo caso infatti le questioni oggetto di scelte pubbliche sono sottratte alla discussione, al conflitto e al compromesso tra punti di vista partigiani.
Una depoliticizzazione discorsiva ha invece come esito la convergenza delle preferenze verso una sola, ancorché variegata, costruzione cognitiva e valoriale della realtà. Non a caso il paradigma prevalente nella contemporanea economia politica di tipo liberista è stato narrato sotto forma di «pensiero unico» manifestando una chiara egemonia culturale del capitalismo trans-nazionalizzato e finanziarizzato. Le politiche pubbliche diventano risposte inevitabili e prive di alternative razionali ai limiti dello sviluppo indotto dalle precedenti risposte (come il compromesso keynesiano) con le quali erano stati precedentemente placati contraddizioni e conflitti.

Soprattutto in Europa, l’appannarsi delle differenziazioni valoriali e programmatiche fra destra e sinistra – che mettono entrambe al primo posto la crescita e il mercato – è una conseguenza e un’evidenza di questo tipo di depoliticizzazione. Questa convergenza è aiutata dalla comunicazione di immaginari dotati di elevata valenza e seduttività, ossia una specifica forza normativa, che si esercita nell’indicare a che cosa e come aspirare. Sono forme di comunicazione e costruzione di significati basate su appelli o slogan, che rimandano a un (buon) senso comune intriso di valori morali o etici. Il consenso viene mobilitato attorno ad assunti la cui accettabilità sociale non può essere messa in dubbio e che quindi legittimano paradigmi indiscutibili.
Quelli prevalenti evidenziano vari aspetti del primato della regolazione attraverso il mercato: per esempio, tutto ciò che è narrato come efficiente, flessibile, innovativo, smart. Questi richiami possono orientare, legittimare e incentivare sia le azioni pubbliche, sia i comportamenti individuali e sociali, come ad es. gli stili di vita e consumo sostenibili, che configurano risposte depoliticizzate a sfide collettive dello sviluppo.
Di converso, questo vale anche per ciò che è inaccettabile e oggetto di stigma: oggi in primo luogo ciò che è pubblico: debito pubblico, spesa, amministrazione, conflitto sociale.
Con la depoliticizzazione non svaniscono le funzioni o lo spazio della politica. I processi di governo divengono però meno trasparenti e al contempo più rapidi e meno costosi da gestire per le élite. Se la scienza o la tecnica dicono che non ci sono alternative non ha senso negoziare nei parlamenti e con gli interessi organizzati, quindi cresce la varietà di temi sottratti ai rischi dello scrutinio assembleare e del giudizio popolare.

In questo modo, nella sfera pubblica i processi stessi di depoliticizzazione sono oggetto di naturalizzazione, presentati da molti attori istituzionali come forme di razionalizzazione in parte inevitabili e in parte auspicabili soprattutto in momenti di crisi, poiché ad essi è associata la riduzione della conflittualità politica (fra partiti e coalizioni) e sociale (capacità di pressione e accesso di interessi specifici), fattori che rendono lenta e incerta l’azione pubblica in modo mal sopportato dai mercati e dagli interessi che vi agiscono.
Eliminare o ridurre il carattere politico delle azioni o affermare una governance nella quale vengano prese decisioni politiche senza l’aria di farlo non significa ridurre il fabbisogno di regolazione, ma produrla con modalità nuove. Gli effetti delle azioni non cessano infatti di essere politici, poiché consistono nell’allocazione selettiva di valori materiali e immateriali. Proprio considerando questi effetti si può ipotizzare una risposta alla domanda circa il perché si siano affermate le forme contemporanee di depoliticizzazione. Sarebbe difficile capire perché questo oggi sia un modello dominante e culturalmente ortodosso, senza metterlo in relazione con la contestuale neo-liberalizzazione e con l’egemonia realizzata dalle élite economiche attraverso il sistema di valori e credenze del paradigma neoliberista.
La depoliticizzazione è infatti un esito coerente e funzionale a una strategia politica e l’azione pubblica orientata al mercato la utilizza come una specifica risorsa istituzionale e discorsiva che consente di dare alle strategie di accumulazione della ricchezza la forma di un progetto politico egemonico. Ciò accade soprattutto nei momenti di consolidamento del neoliberismo, in cui non si tratta (tanto o solo) di tagliare e smantellare il pubblico, ma di costruire o adattare le condizioni extra-economiche per l’accumulazione (ad esempio l’innovazione e la competitività, ma anche le ricette dell’austerity).
La riduzione del politico all’economico, oltre a favorire il funzionamento dei mercati è una componente della razionalità politica e della governamentalità neoliberista. La depoliticizzazione è utile per le élite, ma trova consenso con il crescere di disinteresse, disaffezione e sfiducia popolare nei confronti della politica e deiprofessionisti delle elezioni (considerati privilegiati, incompetenti, corrotti).

Ci si può chiedere, in particolare, se esistono antidoti, cioè a quali condizioni si possano invertire questi processi. Nella crisi attuale forme o momenti di ri-politicizzazione infatti possono essere alimentati e a loro volta alimentare, processi di democrazia sociale radicale, come le mobilitazioni, i conflitti sociali e le forme di resistenza e partecipazione.
Non ci riferiamo alle tante esperienze pur importanti di resilienza sociale in cui i cittadini reagiscono alla impermeabilità della politica e all’aggressività del capitale opponendo stili di vita alternativi. Ci riferiamo altresì a quelle azioni di partecipazione diretta in cui attraverso il conflitto sociale e politico si punta ad invertire i rapporti di forza sociale sollecitando, da un lato, pratiche reali di mutualismo e solidarietà attiva, praticando, dall’altro, azioni di conflitto organizzato che non siano puramente pratiche di ribellismo estetico non inserite, dunque, dentro un quadro strategico di trasformazione della società.
Anche le mobilitazioni che attraversano tutto il territorio, soprattutto a livello locale, non sono sufficienti a invertire la rotta se rimangono ancorate alla dimensione localistica. Esse devono trasformarsi nei nodi di una rete di conflitto nazionale e transnazionale. Per fare questo le lotte devono potersi mettere in rete e trasformarsi in pezzi di un grande movimento sociale di trasformazione che non si limiti al perseguimento di una posta in gioco locale, ma sia parte di una lotta generale dentro cui, in un’ottica anticapitalistica, i vari settori di conflitto – lavoro, ambiente, istruzione, ecc. – siano ricondotti a un unico disegno strategico che compone i parametri di un mondo alternativo.
Anche il rapporto tra movimenti e politica istituzionale va rimodulato così come il rapporto con la questione spinosa della rappresentanza. Un tempo i movimenti, anche più radicali, erano capaci di sfruttare a proprio favore rapporti di alleanza congiunturale con soggetti politici istituzionali che si facevano portavoce di alcune istanze sociali e nodi conflittuali. Oggi questo non è più possibile. Anche i partiti della sedicente sinistra radicale istituzionale, un tempo aperti alle istanze di movimento, oggi sono deboli, talvolta parte di quelle logiche di sistema che dovrebbero altresì combattere, e in genere impegnati in sterili operazioni politiciste che denotano più l’esigenza di marcare un bisogno di sopravvivenza che non di reale trasformazione sociale.
Dentro questo quadro si pone con forza il problema della rappresentanza delle istanze di movimento che, dentro un quadro istituzionale chiuso, rischiano di rimanere prive di una sintesi politica e schiacciate nel breve periodo, come purtroppo la cronaca ci insegna, dalla morsa della repressione. In alcuni casi, lo sforzo di attiviste e attivisti che si mobilitano giorno e notte per la difesa del lavoro, dell’ambiente, dei territori, viene poi sovente capitalizzato da soggetti politici che culturalmente nulla hanno a che vedere con il disegno di società che quegli stessi attivisti delineano attraverso il loro sacrificio militante.

Oggi, dunque, i movimenti devono porsi il problema della rappresentanza politica degli interessi sociali, che è cosa diversa da una mera auto-rappresentazione. Occorre cioè ragionare sulla possibilità e sulle modalità di una soggettivazione politica dei nodi di movimento che, nel rispetto delle storie e delle autonomie territoriali, siano in grado di accettare la sfida dell’unità politica e organizzativa che contempli legami formali e pratiche organizzative sia orizzontali che verticali.
Il successo o meno dell’azione organizzata dei movimenti sociali anticapitalisti dipende dalla capacità di affrontare e sciogliere insieme questi nodi dirimenti. Questo presuppone da parte di tutte e tutti un salto di qualità anche politico-culturale che presuppone una ridiscussione, sovente radicale, di alcune convinzioni del passato, soprattutto rispetto alla questione dell’organizzazione, a quella della comunicazione strategica con la società in senso lato che non è fatta in maggioranza di attivisti e militanti politici, e a quella fondamentale del rapporto con le istituzioni e alla loro radicale democratizzazione.
Solo se saremo in grado di affrontare questi discorsi con laicità, senza pregiudizi, potremo fare dei passi avanti significativi, nella consapevolezza che cambiando noi stessi e il nostro modo di costruire rete e relazioni, saremo in grado di cambiare anche il mondo. Uniti ce la possiamo fare.

COLLETTIVO TERRA ROSSA – POTERE AL POPOLO!

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