Per l’unità dei soggetti nel conflitto, un contributo del collettivo Terra Rossa

Mai come oggi, la violenza capitalistica si è scagliata contro i movimenti che lottano per una trasformazione in senso egualitario delle società contemporanee e lo fa attraverso le istituzioni pubbliche nazionali e sovranazionali che sono ormai subalterne alla logica dei grandi poteri economico-finanziari.
Se un tempo la politica, e soprattutto la politica degli Stati, era in grado di porre un vincolo alla naturale propensione del capitale ad estendere oltremisura la propria logica distruttiva e di sfruttamento, oggi il quadro è cambiato. I rapporti di forza sociali vedono il capitale prevalere sul lavoro e sulla politica e i movimenti di resistenza non sono in grado da soli di opporre una alternativa in grado di prevalere nel medio-lungo periodo.
La struttura delle opportunità politiche dentro cui un tempo i movimenti articolavano la propria azione si è ristretta a causa di ciò che è stato variamente definito come processo di de-politicizzazione della politica rappresentativa, intesa come quell’insieme di mutamenti delle modalità con le quali viene esercitato il potere, che mettono a distanza il carattere politico del processo decisionale attraverso la rappresentanza, legittimando attori apparentemente meno capaci di testimoniare la presenza del politico.
La politica è meno responsabile, sia delle scelte che influiscono sulla regolazione della società, sia dei loro costi e insuccessi. Le scelte politiche acquisiscono i caratteri della necessità o dell’«inevitabile». La de-politicizzazione si afferma in vari modi. Nel contesto europeo, sono osservabili una de-politicizzazione «governativa», una «discorsiva» e una «sociale».
La de-politicizzazione governativa ha a sua volta varie facce che riguardano prevalentemente la dimensione della comunità politica e i rapporti fra governi e pratiche decisionali. Consiste in spostamenti della competenza decisionale da arene o cariche elettive a sedi presentate come neutrali e obiettive, proprio perché a debita distanza – se non al di sopra – dalla politica istituzionale: banche centrali, autorità regolative indipendenti, agenzie di vario tipo, aziende di servizio pubblico privatizzate e rese dipendenti dal mercato piuttosto che dalle interferenze della politica.
Un altro spostamento di poteri, attuato attraverso decisioni di governi e parlamenti nazionali, avvantaggia attori di scala superiore e non elettivi, come gli organi «forti» (intergovernativi) e le procedure dell’Unione europea (es: Fiscal Compact del 2012) e della c.d. troika (Consiglio e Commissione UE, FMI, BCE), e produce varie forme di subordinazione nei confronti di accordi e norme internazionali, il cui rafforzamento è rimesso ad attori e strumenti tecnici.
Questi spostamenti addensano poteri al di fuori della politica statale, ma sollecitano anche una de-responsabilizzazione degli attori politici che li subiscono, autoassolvendosi così dai potenziali fallimenti di certe azioni. Il meccanismo si riproduce nei rapporti fra nazionale e locale, ad esempio in Italia con il «patto di stabilità interno».
Un’altra faccia è l’adozione di decisioni che rendono impossibile prenderne altre in seguito, legando le mani ai decisori politici, sterilizzando de-facto la possibilità di influenza degli attori del conflitto sociale. Per esempio, costituzionalizzare l’obbligo del pareggio di bilancio depoliticizza la politica economica nazionale, il cui compito si riduce a monitorare e aggiustare la rotta con misure che ricadono all’interno di standard prefissati.

Della depoliticizzazione è parte importante anche la tecnicizzazione dei processi, con l’affidamento di effetti regolativi e di allocazione di risorse a tecnologie come la valutazione, con il suo «primato dei numeri», o a procedure tecnicizzate di supporto alla scelta politica che mettono le scelte al riparo da ideologie e pressioni sociali, come l’Analisi di Impatto della Regolazione, obbligatoria in Italia per ogni legge o la data driven decision, basata sull’idea che chi prende decisioni in ambito pubblico non può ignorare il movimento [data driven innovation] che si sta sviluppando nel settore commerciale. O ancora sistemi esperti, algoritmi, rating, benchmarking.
I «tecnici» (alfieri del capitalismo) diventano attori protagonisti, talvolta chiamati a svolgere direttamente funzioni di «politica depoliticizzata», come nei governi di unità nazionale legittimati in nome di emergenze ed eccezionalità, per i quali non contano la rappresentanza e il consenso, ma le competenze professionali e l’affidabilità per i mercati e le istituzioni sopra-nazionali. Non sono estranei a questa faccia della depoliticizzazione i tentativi di legittimare l’istruttoria delle scelte pubbliche attraverso arene deliberative, regolate sulla base di criteri non-politici, fondati sull’informazione e la conoscenza. Anche in questo caso infatti le questioni oggetto di scelte pubbliche sono sottratte alla discussione, al conflitto e al compromesso tra punti di vista partigiani.
Una depoliticizzazione discorsiva ha invece come esito la convergenza delle preferenze verso una sola, ancorché variegata, costruzione cognitiva e valoriale della realtà. Non a caso il paradigma prevalente nella contemporanea economia politica di tipo liberista è stato narrato sotto forma di «pensiero unico» manifestando una chiara egemonia culturale del capitalismo trans-nazionalizzato e finanziarizzato. Le politiche pubbliche diventano risposte inevitabili e prive di alternative razionali ai limiti dello sviluppo indotto dalle precedenti risposte (come il compromesso keynesiano) con le quali erano stati precedentemente placati contraddizioni e conflitti.

Soprattutto in Europa, l’appannarsi delle differenziazioni valoriali e programmatiche fra destra e sinistra – che mettono entrambe al primo posto la crescita e il mercato – è una conseguenza e un’evidenza di questo tipo di depoliticizzazione. Questa convergenza è aiutata dalla comunicazione di immaginari dotati di elevata valenza e seduttività, ossia una specifica forza normativa, che si esercita nell’indicare a che cosa e come aspirare. Sono forme di comunicazione e costruzione di significati basate su appelli o slogan, che rimandano a un (buon) senso comune intriso di valori morali o etici. Il consenso viene mobilitato attorno ad assunti la cui accettabilità sociale non può essere messa in dubbio e che quindi legittimano paradigmi indiscutibili.
Quelli prevalenti evidenziano vari aspetti del primato della regolazione attraverso il mercato: per esempio, tutto ciò che è narrato come efficiente, flessibile, innovativo, smart. Questi richiami possono orientare, legittimare e incentivare sia le azioni pubbliche, sia i comportamenti individuali e sociali, come ad es. gli stili di vita e consumo sostenibili, che configurano risposte depoliticizzate a sfide collettive dello sviluppo.
Di converso, questo vale anche per ciò che è inaccettabile e oggetto di stigma: oggi in primo luogo ciò che è pubblico: debito pubblico, spesa, amministrazione, conflitto sociale.
Con la depoliticizzazione non svaniscono le funzioni o lo spazio della politica. I processi di governo divengono però meno trasparenti e al contempo più rapidi e meno costosi da gestire per le élite. Se la scienza o la tecnica dicono che non ci sono alternative non ha senso negoziare nei parlamenti e con gli interessi organizzati, quindi cresce la varietà di temi sottratti ai rischi dello scrutinio assembleare e del giudizio popolare.

In questo modo, nella sfera pubblica i processi stessi di depoliticizzazione sono oggetto di naturalizzazione, presentati da molti attori istituzionali come forme di razionalizzazione in parte inevitabili e in parte auspicabili soprattutto in momenti di crisi, poiché ad essi è associata la riduzione della conflittualità politica (fra partiti e coalizioni) e sociale (capacità di pressione e accesso di interessi specifici), fattori che rendono lenta e incerta l’azione pubblica in modo mal sopportato dai mercati e dagli interessi che vi agiscono.
Eliminare o ridurre il carattere politico delle azioni o affermare una governance nella quale vengano prese decisioni politiche senza l’aria di farlo non significa ridurre il fabbisogno di regolazione, ma produrla con modalità nuove. Gli effetti delle azioni non cessano infatti di essere politici, poiché consistono nell’allocazione selettiva di valori materiali e immateriali. Proprio considerando questi effetti si può ipotizzare una risposta alla domanda circa il perché si siano affermate le forme contemporanee di depoliticizzazione. Sarebbe difficile capire perché questo oggi sia un modello dominante e culturalmente ortodosso, senza metterlo in relazione con la contestuale neo-liberalizzazione e con l’egemonia realizzata dalle élite economiche attraverso il sistema di valori e credenze del paradigma neoliberista.
La depoliticizzazione è infatti un esito coerente e funzionale a una strategia politica e l’azione pubblica orientata al mercato la utilizza come una specifica risorsa istituzionale e discorsiva che consente di dare alle strategie di accumulazione della ricchezza la forma di un progetto politico egemonico. Ciò accade soprattutto nei momenti di consolidamento del neoliberismo, in cui non si tratta (tanto o solo) di tagliare e smantellare il pubblico, ma di costruire o adattare le condizioni extra-economiche per l’accumulazione (ad esempio l’innovazione e la competitività, ma anche le ricette dell’austerity).
La riduzione del politico all’economico, oltre a favorire il funzionamento dei mercati è una componente della razionalità politica e della governamentalità neoliberista. La depoliticizzazione è utile per le élite, ma trova consenso con il crescere di disinteresse, disaffezione e sfiducia popolare nei confronti della politica e deiprofessionisti delle elezioni (considerati privilegiati, incompetenti, corrotti).

Ci si può chiedere, in particolare, se esistono antidoti, cioè a quali condizioni si possano invertire questi processi. Nella crisi attuale forme o momenti di ri-politicizzazione infatti possono essere alimentati e a loro volta alimentare, processi di democrazia sociale radicale, come le mobilitazioni, i conflitti sociali e le forme di resistenza e partecipazione.
Non ci riferiamo alle tante esperienze pur importanti di resilienza sociale in cui i cittadini reagiscono alla impermeabilità della politica e all’aggressività del capitale opponendo stili di vita alternativi. Ci riferiamo altresì a quelle azioni di partecipazione diretta in cui attraverso il conflitto sociale e politico si punta ad invertire i rapporti di forza sociale sollecitando, da un lato, pratiche reali di mutualismo e solidarietà attiva, praticando, dall’altro, azioni di conflitto organizzato che non siano puramente pratiche di ribellismo estetico non inserite, dunque, dentro un quadro strategico di trasformazione della società.
Anche le mobilitazioni che attraversano tutto il territorio, soprattutto a livello locale, non sono sufficienti a invertire la rotta se rimangono ancorate alla dimensione localistica. Esse devono trasformarsi nei nodi di una rete di conflitto nazionale e transnazionale. Per fare questo le lotte devono potersi mettere in rete e trasformarsi in pezzi di un grande movimento sociale di trasformazione che non si limiti al perseguimento di una posta in gioco locale, ma sia parte di una lotta generale dentro cui, in un’ottica anticapitalistica, i vari settori di conflitto – lavoro, ambiente, istruzione, ecc. – siano ricondotti a un unico disegno strategico che compone i parametri di un mondo alternativo.
Anche il rapporto tra movimenti e politica istituzionale va rimodulato così come il rapporto con la questione spinosa della rappresentanza. Un tempo i movimenti, anche più radicali, erano capaci di sfruttare a proprio favore rapporti di alleanza congiunturale con soggetti politici istituzionali che si facevano portavoce di alcune istanze sociali e nodi conflittuali. Oggi questo non è più possibile. Anche i partiti della sedicente sinistra radicale istituzionale, un tempo aperti alle istanze di movimento, oggi sono deboli, talvolta parte di quelle logiche di sistema che dovrebbero altresì combattere, e in genere impegnati in sterili operazioni politiciste che denotano più l’esigenza di marcare un bisogno di sopravvivenza che non di reale trasformazione sociale.
Dentro questo quadro si pone con forza il problema della rappresentanza delle istanze di movimento che, dentro un quadro istituzionale chiuso, rischiano di rimanere prive di una sintesi politica e schiacciate nel breve periodo, come purtroppo la cronaca ci insegna, dalla morsa della repressione. In alcuni casi, lo sforzo di attiviste e attivisti che si mobilitano giorno e notte per la difesa del lavoro, dell’ambiente, dei territori, viene poi sovente capitalizzato da soggetti politici che culturalmente nulla hanno a che vedere con il disegno di società che quegli stessi attivisti delineano attraverso il loro sacrificio militante.

Oggi, dunque, i movimenti devono porsi il problema della rappresentanza politica degli interessi sociali, che è cosa diversa da una mera auto-rappresentazione. Occorre cioè ragionare sulla possibilità e sulle modalità di una soggettivazione politica dei nodi di movimento che, nel rispetto delle storie e delle autonomie territoriali, siano in grado di accettare la sfida dell’unità politica e organizzativa che contempli legami formali e pratiche organizzative sia orizzontali che verticali.
Il successo o meno dell’azione organizzata dei movimenti sociali anticapitalisti dipende dalla capacità di affrontare e sciogliere insieme questi nodi dirimenti. Questo presuppone da parte di tutte e tutti un salto di qualità anche politico-culturale che presuppone una ridiscussione, sovente radicale, di alcune convinzioni del passato, soprattutto rispetto alla questione dell’organizzazione, a quella della comunicazione strategica con la società in senso lato che non è fatta in maggioranza di attivisti e militanti politici, e a quella fondamentale del rapporto con le istituzioni e alla loro radicale democratizzazione.
Solo se saremo in grado di affrontare questi discorsi con laicità, senza pregiudizi, potremo fare dei passi avanti significativi, nella consapevolezza che cambiando noi stessi e il nostro modo di costruire rete e relazioni, saremo in grado di cambiare anche il mondo. Uniti ce la possiamo fare.

COLLETTIVO TERRA ROSSA – POTERE AL POPOLO!

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Stimolo alla discussione: la parafrasi comunitaria.

Come creare livelli comunitari attivi affinché si favorisca lo sviluppo della “futura base di lotta al capitalismo”.

Come creare processi di conflittualità e di controtendenza nel soggettivismo politico, all’interno della dinamica comunitaria di classe.

“La comunità se non è definibile in un quadro chiaro, sarà marginale nella discussione sul potere”.

L’anomalia strutturale socio-politica urbana che pervade i luoghi entro cui l’individuo esiste, rende questi spazi fisici anonimi e totalmente disarmonici ad un ritmo di vita giusto e pieno. I due elementi che caratterizzano questa discrasia appartengono alle categorie dell’approssimazione e del conservatorismo. Eppure, queste due logiche apparentemente in scontro ma apertamente compenetrate regolarizzano la dimensione dell’esistente in un eterno presente e in una diurnale cronaca di sopravvivenza. Spesso questo esistente, queste vite vissute da contorno intorno alle necessità primarie, sporadicamente si travestono in timidi fuochi ribellistici e immediatamente o quasi vengono dominati in totale sinergia con il potere che opprime queste esperienze primarie autodomate.
Se il soggetto si scorge magari solo un metro fuori l invisibile campo di reclusione costruito intorno a se, sempre se riesce ad osservarlo, porterebbe se stesso “che compone la prima comunità perché è lì che nasce, vive spesso vi muore subordinato agli altri da una quotidianità relazionale vera ma al medesimo tempo parassitaria”, a comporsi innanzi al potere costituito un po per opportunismo un po delegittimando se stesso e le sue seppure insolite alla propria conoscenza, esperienze azioni primarie: che si interfacciano ad esso, il potere, tra forme parabelligeranti e maniere ribellistiche.
Queste circostanze subito o quasi per inerzia farebbero ritornare lo stesso individuo nei perimetri recintati da cui ha tentato di uscire, più per una approssimativa idea/azione di accumulazione che liberatrice ed emancipatrice.
Stabilito un quadro minimo oggettivo, dovremmo per lo meno incominciare a farci domande ed a praticare risposte intorno a quel soggettivismo politico attivo che dovrebbe produrre risposte: come fa l individuo a riconoscersi in un a comunità in lotta(se ve ne è una) se non riesce a valorizzare neanche se stesso? Come fa ad agire in gruppo, in un collettivo politico non subordinato all’emergenza o all’imposizione del momento senza che i suoi intenti sani vengano ricaptati come segnali insani?
La comunità stessa facentesi garante della dimensione collettiva, perché ancora non è soggetto plurimo e organizzato, deve avere la capacità stessa di impossessarvi delle” armi della conoscenza e del sapere”; deve avere la capacità di comprendere l utilità di rendere quasi indolore la via transitoria, che nella essenzialità della gestione primaria possa raccogliersi nel passaggio futuro della ri-costruzione e in prima istanza non sarà percettibile come tale.
Insomma le armi di cui la comunità dovrà poter disporre, per fare i conti con la propria difficoltà secolare di riscatto e, per farne lo strumento di offesa di cui una parte di popolo si doterà per contrattaccare il nemico quando egli sarà pubblicamente declamato.
Liberarsi dai postulati egemonici che riempiono le gabbie invisibili è ancor più difficoltoso se una comunità è priva di senso e d adesione, principi per la quale la stessa, a tratti, batterà segnali diffusi o si rifugia in arcaici modi di interpretazione e salvaguardia del soggetto come individuo singolo e non collettivo.
La comunità nella proposta cittadina, va riempita da una soggettività plurima e diversificata, non più vittima dell’apparire e, nonostante essa debba sopravvivere al passar delle stagioni affidandosi all’ingegno popolare ed all’idioma con cui tutti comunicano fra loro, all’arguzia lessicale che è propria delle popolazioni locali autoctone(almeno per una parte),deve sostenere al suo interno una lotta impari per lo sforzo, non scontata, contro chi la idolatra e ne fa un pezzo da museo, la guarda dall’esterno come le scimmiette prigioniere nello zoo: abolizione quindi nelle comunità dei luoghi dove si nutrano le logiche misteriose che la tengono soggiogata e schiava proprio come quegli animali da esposizione.

Inoltre, se la lingua parlata è in questa logica perversa, fonte di ulteriore discriminazione territoriale, quasi razziale, si dovrà fare molta attenzione al suo uso; sarebbe l ideale che l individuo non resti attratto nella trappola preesistente del vivere l eterna conflittualità dialettica, sterile ed improducente, da sottomesso(la lingua parlata comparata al grado di istruzione conseguito o al grado con cui la si esprime o la si esterna in termini violenti), ma che venga invece calamitato dalla prospettiva di liberarsi da quei postulati egemonici che rendono le comunità simili fra esse ma spente della propria diversità antropologica.
Si ha necessità dunque di non costruire e non stabilire nella relazione dialettica l uso di questa coniugazione lessicale veloce che è la lingua parlata, come un verbo, ma di usarla come azione liberatrice.
“Il potere che detiene scientificamente l arbitrio della vita e della morte, non parlerà mai la stessa lingua del popolo e delle sue sofferenze non ne udrà mai i lamenti”.
Inoltre, bisogna saper riconoscere e sconfiggere queste paure quotidiane vere, latenti, all’interno di un immaginario che deve innanzi tutto cambiare nella relazione fra soggetti che “abitano”pezzi di paese come vicini di condominio nell’apparente rispetto della forma.
Se la sostanza non riesce ad attraversare le comunità, c è sempre il rischio di alimentare processi convulsivi che destabilizzano anziché radicalizzare.
Quindi nella prima comunità va strutturato un lavoro continuo e permanente di scuole anti-sistemiche, culturalmente pronte a favorire lo sviluppo x la radicalità diffusa.
E’ nel concetto di educazione popolare stabile che forma e sostanza si ridanno la mano; è in questo enorme contenitore che ritroviamo la comprensione dei bisogni e le prospettive future presenti e a medio termini.
Inoltre, questo che per il momento resta un concetto, ha bisogno di esplorarsi in una definibile spazialità urbana che non permetta di recludere l intervento sociale politico nelle categorie comprese/sse. Il primo intervento in questo comunità, se stabilmente vuole penetrarvi e concatenarvisi, deve trovar casa logica in una fase progettuale che stabilisca”livelli di formazione educativa” adatti ad interporsi a realtà sociali negative con l espansione del sapere, la reale visione nel vedere il cambiamento; rimettere insomma al centro della discussione pubblica il soggetto come luogo di espansione e non come soggettività perennemente schiacciata da un potere tetragono. Infine, la trasformazione da soggetto individualista ad uno nuovo, totale, collettivista, che autoriconoscendosi unico nella sua particolarità costruttiva(fisica ed intellettiva) possa porgersi agli altri in termini di riscatto, libero nel non subire le scelte massacratorie del potere, non più confinato nel ghetto gretto e meschino.
Per l’ appunto, essendo molteplici tali luoghi di chiusura, si necessita “crearsi, stabilirsi” fuori da questi schemi conservatoristici dettati sostanzialmente dalle condizioni egemoniche imposte dal capitalismo.

La stabilità della compenetrazione educativa, non essendo ferma e per questo in moto, osserva in maniera particolareggiata ciò che intorno accade e di fatto riesce meglio ad interloquire con tracciati educativi plurali per l esercizio quotidiano del cambiamento. Quindi il primo riscatto deve essere inteso realmente, vissuto soprattutto rispetto alla vita sociale economica che ognuno ha e fa.
Riqualificare queste vite, nel primo concetto di esperienza comunitaria significherebbe dar corpo a quelle esigenze sopite, a creare spazi di comunicazioni evidenti anch’essi molteplici e che all’ interno della spazialità urbana riprendano le maglie del tessuto sfilacciato, riaggomitolando nell’idea di costruzione con l altro/a, i fili di un discorso interrotto là dove le prospettive di ognuno si pongano in antitesi alla sussidiarietà al sistema vigente: tesi iper-aggressiva per la quale si patisce e si soccombe.
E’ chiaro come l’esperienza educativa popolare stabile abbia una duplice funzione nella visione lungimirante che essa ha: liberare coscienze e vite nell’esercizio comunitario della condivisione di spazi (fisici e teorici) comuni (scuole di prima alfabetizzazione, autorecupero dei centri storici fatiscenti, riqualificazione di piazze e luoghi verdi, ambientalizzazione del territorio) e creare generazioni future di lotte che possano autogovernarsi dal punto di vista di classe nell’interazione stabile con la comunità, che impara ad essere il luogo in cui il tempo e lo spazio di agibilità si incrociano al bivio quotidiano tra ricatto e riscatto.
Uno stimolo peraltro che se suddiviso a ragione in spazi uguali e radicali, alleggerirebbe il peso che in pochi sono costretti a portare; una croce di acciaio che non schiaccerebbe mai più la idea del sollevarsi dell’essere umano dalla condizione di schiavo moderno in cui egli ricade oggi.
E’ proprio questa schiavitù moderna, questo concetto padronale che va approfondito dentro l’abitare di una comunità che fu, dove enormi fette di popolazioni vengono illuse, intrise di oli profumati e non essenziali, cosparse di cenere calda, invasa da logiche disfattiste e arcaiche al tatto.
Proprio li’ dove gli apparati ideologici sfruttatori detengono il potere materiale si fa in modo che le tante bolle rivoltose scoppino al primo sole d’ inverno: il più tenue e fragile, in egual misura un caldo gradevole che fa accomodare su postazioni silenti intere porzioni di popolazioni.
E’ proprio il sentimento contrario a queste forme di pacificazione che va instaurato nei primi processi di alfabetizzazione. Tale sviluppo dovrà essere non ipotetico ma concretamente necessario a spazzare via la sudditanza dalle scelte imposte nel vincolo quotidiano del ricatto. Questa ipotesi di ragionamento sarà inoltre sviluppata per raggiungere quanta più gente possibile in modo di poter garantire in una fase transitoria di elaborazione e di repressione materiale-culturale, la possibilità di considerare questa prima forma di aggregato disponibile al rivoluzionamento in quanto ne osserva la produzione viva sotto casa per ragione parentale, amicale, pseudocomunitaria. Certi di sentirsi parte attiva di un progetto, di udire inoltre l’altro/a come referente potranno disporre di pratiche solidali e confronto alla pari su dimensioni simili o paraeguali sempre nell’esercizio del cambiamento.

Questa prima fase di elaborazione territoriale viva si doterà di un ragionamento pubblico, tale da permettere alla comunità in lotta una considerazione di se stessa marcatamente più autorevole innanzi al passato: una fase che definiremmo dell’ “autostima organizzata” quindi mai più spontaneismo resistenziale e disorganizzato.
In una fase in cui il sapere diffuso come metodo, potrà fornire gli strumenti ideali al singolo che sentendosi sicuro di se stesso potrà con gli altri organizzarsi collettivamente esercitando il diritto di poter scegliere il meglio per la propria comunità.
Una prima battitura alla delega, una prima fuoriuscita da una situazione di invisibilità parziale o per molte fette di popolazione di totale oscurità nei confronti di ciò che li governa, attraversa e opprime, rendendo gli esseri umani ostili uno all’altro/a nella pingue rincorsa all’accumulazione, ad un futuro che resta presenza scenica al presente. Alimentare quindi un sentimento chiaro nella prima comunità, che possa avere la capacità di difendere lo stile di vita che auspica per se stessa.

1a. LA FASE TRANSITORIA: l’acutezza del dolore, la rinascita dell’individuo……..la classe si evince!
Le situazioni di ghetto in cui la continuità e la sistematicità del potere che opprime negli anni il neocolonizzato, il moderno schiavo, dovranno essere il campo di battaglia educativo-rivendicativo-rivoluzionante dei soggetti in lotta. L’essere qui presenti, significherebbe tracciare una linea continua con ciò che fu: “la ripresa della memoria comune asfalterà la tesi revisionista tanto cara ai detentori del potere transitorio e che tanto inquina i luoghi (i campi di detenzione invisibili dove costringono la gente a vivere) e gli spazi dove a volte ci chiudiamo per sfuggire spaventati da una realtà che è drasticamente vera, articolata in maniera complessa nella diversità antropologica, culturale e sociale”.
Insomma, la “capacità di ritornare ad essere” che solo uno strumento come il recupero della memoria perduta ci potrà ridare.
Perché, in luoghi dove le comunità che interagivano in sintonia con quelle che erano le caratteristiche morfologiche del proprio territorio e da cui traevano sussistenza, identità culturale, adesione e solidarietà non possano ritornare ad essere?
Per quale logica siffatta le comunità non possono ritornare ad essere e diventare sinonimo di cambiamento in meglio?
Per quale motivo suddette comunità che come metodo sceglieranno di autogovernarsi dandosi gli strumenti ideali ed utili, partecipativi e rivoluzionari non potranno ritornare ad essere?

Memoria storica territoriale e cambiamento reale della prospettiva di vita quindi determinanti per la garanzia dello sviluppo futuro.
Recuperare pezzi di “vita comunitaria che furono” è come guadare un fiume. Immergendo la prospettiva proprio laddove la caratteristica della sostanza fluida è più impregnata e densa otterremo progetti piloti e pionieristici che aprirebbero a strade meno battute e qualificherebbero cammini già percorsi.
Segnali economici destabilizzanti produrranno nello spazio urbano vicissitudini non più esterne ma interne alla pluralità del bisogno. Se le linee di confine tracciate dai ghetti verranno riesplorate, sicuramente potremmo essere certi di creare sistemi di economie quotidiane senza confini e marcamenti ma utili alla conformità sociale e territoriale; tale situazione non altererebbe di molto il quadro dipinto dalle forme capitalistiche mondiali. Inoltre, certi di questo, dovremmo esserlo altrettanto nello scorgere un forte senso di fiducia nel soggetto in lotta, coscientemente non schiavo e non più in fuga, ma fermo nella convinzione di dover difendere se stesso come comunità collettiva. Essa, in un momento-secondo(tempo e sazio che si fondono plasmandosi nella dilatazione della ricerca esplorativa umana e che innanzi al tempo di suddetta storia umana si coniugano verbi di sostanza e forma) da micro-residuale si presenterebbe ad una fase trasformante in veste di macro condizione.
Questa macro visione potrà essere utile a distanziarci dall’approssimazione culturale, che lega le popolazioni estromesse a stili di vita e costumi consumati ed abusati. Tali mascheramenti, tali travisamenti opportunistici fanno si che l’essere umano schiavo possa essere identificato come “Piccola Categoria Integrata” e che queste maschere suvvia, indossate involontariamente ma in maniera subindotta, diventino un cumulo di plastica utili al riciclo delle proprie insofferenze e nostalgie legate al ricordo quotidiano.
E’ il ricordo delle azioni collettive che fa rinascere nell’individuo soggiogato la curiosità verso la propria esistenza; il fatto singolo, il ricordo unico, servono a replicare un romanzo di vita sterile ed incongruo e quindi inopportuno per lo sviluppo ulteriore. Qui, forma e sostanza diventano ricordo attivo ovvero tempo e spazio dilatato nella funzione sociale del tracciato evidente.
La stessa non compressione produrrà nelle comunità anticorpi al sistema e già la novella raccontata da tutti a tutti diventa il romanzo di noi altri, i pigri ed i tendenziosi: la fase della rinascita dalla putrefazione.
La fenice che risorgerà dalle ceneri di una comunità passiva e disarticolata già ne diventa il simbolo del riscatto sociale.

1b. L’ EVIDENZA TRANSITORIA, LA SPAZIALITA’ URBANA.
Per porsi in antitesi alla rappresentazione urbana tradizionale si ha necessità, in un ghetto, di favorire la mutazione del rapporto tra colui o colei che vivono questa condizione imposta e lo spazio fisico circostante.
Se quello che ti circonda è un ambiente malato a causa di fabbriche iper inquinanti e discariche che sempre bruciano rifiuti, il nostro porsi sfiderà a viso aperto queste”istituzioni della morte” sul campo della lotta per le bonifiche di questi siti. In codesto modo, per territori abusati da queste forme di assassinio virulento è il passo necessario e primario per poter considerare una reale riqualificazione delle terre e dei mari che li circondano. Altrimenti li stabilmente rimarranno cimiteri tetri e radioattivi dove la luminescenza delle scorie sepolte darà vita a formazioni genetiche nuove che si adatteranno all’esterno e moltiplicandosi ad un ritmo innaturale plasmeranno il territorio tutto.
Se non si potrà reimpiegare la forza lavorativa in opera nelle bonifiche dei siti inquinanti, si otterrà per la comunità esposta un triplice danno: 1)che si continui tutti a morire in maniera esagerata di forme tumorali iperveloci; 2)che si continui a tenere separati il concetto di una qualità della salute elevata con quella della tenuta di un posto di lavoro, che cosi com’è non salvaguarda ne il reddito mensile procapite ne la vita stessa di chi in codeste fabbriche vi lavora; 3)che a causa di questa ultima condizione non si riesce a difendere gli interessi collettivi e non si riesce a condurre un ragionamento pubblico consapevole che esca dall’approssimazione opportunistica e dalla disunione fra soggetti. Inoltre c è da considerare il fatto che come popolazioni si permette la fuga degli zelanti fautori dello scempio cosi impunemente che costoro non pagano pubblicamente per i crimini commessi. E ancora, lasceremmo che essi agiscano in maniera eguale in altre parti del pianeta costruendo ricchezze in nome del profitto di classe padronale. Va reso evidente, svelato, che il fautore dell’antropizzazione del pianeta terra è l’essere umano capitalista e da ciò derivano le nostre condizioni e quelle del mondo in cui viviamo.
Va fatto attraversare nelle comunità il senso delle responsabilità per il prossimo e per il pianeta che ci ospita; e ancora, la disunione va affrontata energicamente : il ragionamento pubblico sarà ancor più alla deriva se vecchi e nuovi contestatori si dirigeranno verso il gorgo imbarcando già acqua, nelle loro piccole barchette, in partenza.
Quante poche miglia marine faranno al largo della costa protetta prima di raggiungere i fondali ormai deturpati?
Quali nuove forma compromissorie di adattamento si sceglieranno se non quelle di posizioni non rivoluzionanti?
Questo potrà non accadere se sono grosse funi tenute da presidi umani a reggere il confronto in mare aperto: un esercizio elastico che ci permetta di guardare al di là del dito che indica la luna e scorgere nell’ipotesi di costruzione di osservatori popolari per la gestione delle bonifiche, una reale e concreta fuoriuscita dal problema…..una luna riflessa sulla marea in movimento.
Se quello che ti circonda è un ambiente privo di conoscenza a causa di scienziati del crimine che tengono in scacco le popolazioni privandole del sapere, dovremmo allora chiederci come sviluppare un discorso completo sulla formazione umana. Vengono sottratte enormi possibilità alla ricomposizione di un altro io non piu qualunquista, superficiale, mansuetamente plasmato, docile e allevato a spolpare ossa ed a ricevere da mani insanguinate piccoli bocconi di inedia e di servilismo. E’ ora che a questa sottrazione si diano risposte complete ed esaustive, partecipate e chiare progettualmente. Possiamo ripensare il concetto dell’alfabetizzazione da un punto di vista orizzontale, di classe, comunitario, collettivista e di espansione di massa. Concependo questa struttura educativa da cui ripartire nelle situazioni marginali che ormai si apprestano ad essere notevolmente superiori a quelle partorite con la cementificazione selvaggia degli anni ’70, chiariremo a chi è nostro interesse rivolgerci nuovamente ovvero a quella parte di popolo a cui sono sottratte possibilità e che vivranno i nuovi ghetti.
Per far si insomma, che le popolazioni estromesse (masse, moltitudini, pluralità eterogenee ,trasversalità, individualità, subalterni) possano rientrare non più dalla porta secondaria ma dal portone principale, quello grande, dove useranno il battente sullo stipite per preannunciare sullo stipite autorevolmente l’ arrivo di così tanta cosciente consapevolezza.
Educare stabilmente una parte di popolo, “gli analfabeti”, come suggeriscono forzatamente le forme di costume è poter riassumere le concause, sintetizzare gli effetti, produrre stabilità emotiva, formare nuove generazioni mai più insoddisfatte. Per educare una comunità in modo che non sia eterodiretta,tele-didattica si ha necessità di non creare ne nuove forme di potere (altri insegnanti) ne replicare vecchie abitudini e forma stantie di estromissione (meritocrazia, categorie stagne, conservazioni e monopolio dei saperi).
Per educare stabilmente la comunità oppressa, si ha necessità di luoghi fisici e mentali: scuole popolari organizzate che emancipano e proiettino i soggetti che da qui acquisiscono forme di sapere libero, nel dibattito pubblico, inoltre che possa dirigere l’ attacco alle istituzioni che falliscono l’ intervento sulla diffusione della conoscenza in modo da ottenere un primo risultato immediato, screditare queste ultime e alterare lo stato di coscienza sopito.
Le forze da ricercare per intraprendere la strada della formazione collettiva, vanno ri/scoperte in seno ad una “dimensione generale di crescita”, considerando che chi agirà per creare ciò, sarà si il valore aggiunto ma dovrà sempre interagire con chi in prima istanza riceve le informazioni, perché colui/lei potrà e dovrà domani continuare questo esercizio di stabilità conoscitiva e cosi via generazione su generazione.
Per educare stabilmente queste forze non si ha bisogno ne di mediazioni ne di compromessi; ciò significherebbe escludere le pratiche instaurate pre-concettualmente in un rapporto non orizzontale quindi tra parti egemoni diverse e non percorse dal medesimo stimolo. All’interno di una programmatica convinzione si potranno scorgere le figure-forze che inizieranno il cammino: giovani universitari, insegnanti in pensione o in attività, figure riconosciute pubblicamente nel quartiere dove si agirà, militanti-attivisti delle lotte sociali, che si senta inoltre stimolato da questo tipo di prospettiva!!!.
Per educare stabilmente pezzi di comunità è necessario fabbricare reti concentriche dove muoversi abilmente per difendere lo stimolo organizzato; uno stile di vita adottato che è e resta il cuore della tela della nostra prospettiva, di essere individui liberi in circostanze libere.

Giuseppe Fonzino Taranto

Posted in Documenti Campeggio | Comments Off on Stimolo alla discussione: la parafrasi comunitaria.

Il progetto di scuola popolare a Taranto, l’esperienza della Casa Occupata di Via Garibaldi

Praticare un modello alternativo di educazione vuol dire costruire forme nuove di insegnamento e apprendimento, relazioni e legami sociali basati sulla solidarietà e la cooperazione contro l’ideologia della competizione e della meritocrazia. L’obiettivo del processo di educazione popolare attivato nella città vecchia di Taranto e, in parte, nel Quartiere Paolo VI di Taranto, è far sì che i/le subalterni/e possano costruire attraverso il processo di alfabetizzazione ed educazione la possibilità di dire la propria parola, di descrivere e trasformare il mondo, tenendo assieme in questo modo apprendimento e lotta, percorso di formazione e continuità/innovazione del conflitto sociale.Il processo pedagogico scolare è inteso come un percorso legato profondamente alle esigenze di liberazione ed emancipazione delle classi subalterne. La scuola popolare, nello specifico, si propone di contrastare i processi di esclusione, di individualizzazione e di impoverimento che coinvolgono tuttora ampi settori popolari. I/le giovani trovano la possibilità di inserirsi in una dinamica collettiva aperta ed accogliente, in cui valorizzare le loro capacità di apprendimento e affermare che esiste la possibilità di una crescita educativa e umana anche per chi è stato espulso dal sistema educativo, attraverso il riconoscimento del valore del sapere subalterno, delle competenze e delle esperienze di vita di chi viene dai quartieri popolari.Si tratta di un processo di soggettivizzazione politica che nasce dalla sperimentazione radicale delle pratiche pedagogiche a partire dalla quotidianità: i saperi “della lotta e per la lotta”, i saperi popolari e subalterni e quelli accademici convivono in un processo meticcio all’interno del progetto. La critica delle discipline, la centralità della dimensione politica dell’educazione e la connessione tra pratiche di lotta e cooperazione formano così parte integrante del processo di appropriazione e riconfigurazione dei saperi che viene sperimentato dall’educazione popolare. Nella vita quotidiana della scuola popolare possiamo ritrovare una sperimentazione educativa che tenta di infrangere l’ordine della spiegazione (Rancière), a partire dalla reinvenzione dell’educazione come pratica di liberazione e di trasformazione nell’incontro tra esperienze di lotta territoriali ed esigenze dei settori popolari nel contesto di precarietà ed emarginazione specifico della città di Taranto. La scuola come esperienza di educazione popolare viene quindi intesa come un vero e proprio movimento sociale: l’elemento di maggiore interesse di questa esperienza per i movimenti sociali nel pieno della crisi europea e mondiale sta proprio nella capacità di sperimentare nuove “istituzioni” – in questo caso iscritte in pieno nella tensione tra autonomia e “relazione” con lo stato – in cui facilitatori ed educandi sono parte di un processo di liberazione e di crescita comune. La funzione della scuola diventa quella di dare vita a nuovi processi di soggettivizzazione avendo “come aspirazione, la conformazione di soggetti politici” impegnati e compromessi con le lotte sociali, per rafforzare la lotta per l’egemonia di un modello alternativo al capitalismo.

Nella nostra attività, per convinzione politica oltre che per scelta pedagogica, costruiamo con i/le bambin* relazioni egualitarie: ci poniamo come accompagnatori e accompagnatrici di un percorso di autoeducazione in cui essi sono soggetti pienamente attivi. Il nostro obiettivo immediato è affrancarli dal senso di inadeguatezza che la scuola istituzionale genera attraverso nozioni, doveri e regole che oggettivamente soffocano la loro individualità e che sono estranei al loro ambiente sociale. L’obiettivo di fondo è aiutare i/le bambin* a crescere padroni di se stessi/e, a riconoscere la piena dignità della loro cultura di appartenenza e a non cadere nella trappola della rassegnazione e del vittimismo, con cui l’ordine politico e sociale previene la formazione di una coscienza di classe fra i gruppi sociali che tiene ai suoi margini.
La scuola popolare e’ un progetto complessivo che attualmente presenta due filoni: il dopo scuola e il   calcio popolare; tuttavia vorrebbe interessarsi di educazione popolare nella sua totalità. La Scuola popolare nasce dall’impegno di compagne e compagni del Comitato di quartiere Città vecchia e della biblioteca popolare, da anni attivo nel centro storico di una città violata e snaturata dalla grande industria e dalle forze armate con la complicità di una classe politica incapace e l’acquiescenza di una borghesia locale priva di identità culturale. Dopo anni di lotta in difesa del territorio e dei/delle suoi/sue abitanti è maturato il progetto di una scuola popolare, teso a contrastare quella condanna alla marginalità sociale con cui lo stato e il capitale segnano il destino di interi strati della popolazione

Il doposcuola
Crediamo che il primo atto ufficiale con cui lo Stato, di fatto, discrimina e condanna chi appartiene ai gruppi sociali più deboli sia la pagella scolastica; che ad essa seguano, a completare l’opera, un verbale di polizia e una sentenza della magistratura non è infrequente. Ebbene, noi intendiamo sottrarre i bambini della Città vecchia a questa condanna.La scuola popolare, in questo senso, funziona “al contrario”: crede nella trasversalità del messaggio, nell’educazione alle differenze e alla differenziazione del pensiero de* singol*, aiuta allo sviluppo di una comunità che sia solidale, che costruisca aspettative nuove e che rompa il sistema gerarchico imposto tra chi sta “dietro la cattedra”  e chi invece deve stare zitto ad “ascoltare” le solite nozioni.

COSA È MANCATO?

 Analisi condivisa dei bisogni, della domanda e dell’offerta. I bisogni di formazione vanno indagati, in maniera condivisa, attraverso un’analisi delle “situazioni-problema” (ovvero le situazioni percepite come problematiche dai soggetti) nelle situazioni di vita, per permettere che anche gli individui formulino domande di formazione. Tale circostanza potrebbe essere in grado di motivarli/e alla partecipazione.

 Sistema di educazione integratoSistema di educazione di forma “allargata”: La constatazione di ruoli educativi ricoperti da nuovi soggetti, che si aggiungono così a quello tradizionalmente attribuito alla scuola, conduce a formulare un’ipotesi che concerne l’idea di un sistema educativo aperto (Bertin) che si esplica in forme di collegamento tra scuola e territorio, in modo che gli educandi possano beneficiare di percorsi culturali differenti e vedere valorizzate le diverse componenti culturali di cui sono portatori e portatrici.

In questa prospettiva, gli organi extra-scolastici si connettono al loro contesto sociale e culturale, si aprono all’ambiente e alle istituzioni scolastiche, in una relazione di complementarietà e di interdipendenza delle reciproche risorse educative. Questa ipotesi potrebbe recuperare, in un certo senso, il progetto di una società educante che, attraverso le unità territoriali, sia in grado di svolgere un’analisi dei propri bisogni culturali e di predisporre le relative risposte in un processo di descolarizzazione.

Criticità
• l’intervento di per se  territoriale; non si e’ ancora pensato a come mettere insieme più realtà rionali per un progetto di educazione popolare che assuma una forma cittadina. • Resistenza pedagogica • Omologazione terminologica (E quindi capitalista)• Le unità didattiche sono perlopiù informative e non conflittuali• l’azione politica viene fraintesa come mero volontariato assistenziale.

PROGETTO SPORT POPOLARE

Il progetto del Calcio Popolare nasce in maniera strettamente legata all’esperienza dell’educazione popolare dei comitati di quartiere, in particolare, dalla richiesta esplicita de* ragazz* del quartiere di poter praticare liberamente e gratuitamente attività sportiva.I settori giovanili delle varie discipline sportive sono stati assorbiti dalla mercificazione globale, in cui ogni cosa diventa prodotto e conseguente profitto, le grosse spese da dover sopportare per dare la possibilità ad un* ragazz* di praticare sport creano già di per se’ delle forti classificazioni sociali tra “chi può e chi non può”. In questo senso, i/le ragazz* dei quartiere più disagiati subiscono una forte discriminazione a causa della mancanza di risorse economiche in primis ed inoltre dall’assenza di spazi adeguati  dove poter giocare e socializzare senza dover pagare le famigerate “quote campo”. A nostro parere la definizione di “sport popolare” rientra nel concetto di riappropriazione di spazi attraverso meccanismi di autogestione e autoorganizzazione orizzontale e partecipata, con lo scopo di poter abbattere la cultura della delega e delle gerarchie, presenti in tutti i campi della società attuale.Nella nostra esperienza le scelte vengono fatte dal gruppo tenendo alla pari sia le proposte de* ragazz* che quelle degli adulti “facilitatori”, si sperimenta l’assenza di ruoli : tutti i facilitatori si alternano nelle mansioni evitando gerarchie all’interno del gruppo (non esistono allenatori in prima o in seconda) e tra i ragazzi non c’è’ un capitano, volutamente, per non creare o legittimare leadership tra i ragazzi (nei tornei in cui si deve scegliere per regolamento si fa a giro).

Gli sport di squadra, come il calcio, aiutano a praticare la cooperazione nell’unità di intenti per il raggiungimento di un obiettivo comune attraverso lo sviluppo delle proprie capacità, non solo tecniche, a disposizione della collettività in un reciproco scambio solidale ed equo tra i componenti del gruppo.Tra le pratiche utilizzate riteniamo che una delle più importanti sia il momento del “centrocampo”: una forma assembleare, che se pur limitata temporalmente, al momento stesso e’ essenziale ed efficace per analizzare sia gli atteggiamenti avuti durante partite o allenamenti sia la possibilità di creare percorsi di coesione sociale anche slegati dall’ambito sportivo.Nel corso degli interventi fatti all’interno dell’esperienza di calcio educativo, pur innescando dei tentativi di collaborazione e avvicinamento nei confronti dei genitori, attraverso pranzi sociali e trasferte mirate al confronto con altre realtà, come quella di Bagnoli “La Flegrea”, non abbiamo riscontrato collaborazione pur stabilendo fiducia e stima. Azioni dovute al miglioramento del progetto. Un altro aspetto importante è la mancanza di realtà, all’interno del nostro territorio che possa creare un circuito alternativo alle strutture di sussunzione di profitto. Infine la non accettazione di una sconfitta che crea accuse reciproche di responsabilità, dove l’agonismo si confronta solo attraverso la competizione e non come un bisogno di migliorare le proprie capacità.

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Campeggio politico di costruzione progettuale di conflittualità 17 – 21 Agosto 2017

Campeggio politico di costruzione progettuale di conflittualità
17 – 21 Agosto 2017
c/o AgriCampeggio “Darwin”, località Pozzello, Otranto (LE)

I compagni e le compagne delle realtà territoriali pugliesi invitano le realtà antagoniste italiane ad un campeggio politico, previsto dal 17 al 21 agosto 2017 presso l’AgriCampeggio “Darwin” a Otranto, teso alla costruzione di un percorso progettuale che permetta di sedimentare l’uscita dalle logiche distruttive del capitalismo. Una riflessione che ci permetta di costruire un senso comune di militanza e che ci permetta di delineare, nero su bianco, le caratteristiche principali dell’altro mondo possibile che già a Genova rivendicavamo nelle piazze e che riteniamo sia sempre più necessario concretizzare e non semplicemente teorizzare.

L’ambiziosa meta proposta ci ha visto e continuerà a vederci impegnati in discussioni teorico-politiche che, in questi ultimi mesi, ci hanno permesso, attraverso varie assemblee e ore di ragionamenti, di determinare le direttrici principali su cui il campeggio verterà.
Riteniamo fondamentale costruire una prassi che sia capace di alimentare oasi territoriali in grado di offrire un riferimento a chi è stanco di subire le logiche padronali (che vanno dallo sfruttamento sul posto di lavoro, al ricatto delle locazioni, alla morte per avvelenamento o sfinimento fino alla deturpazione delle vocazioni territoriali).
Costruire conflittualità non significa, esclusivamente, resistere all’interno di dinamiche vertenziali che, sebbene soddisfatte, non producono effetti sulla qualità della vita (lottiamo per la garanzia di poterci far sfruttare per 300 euro al mese in un paese in cui, tra spese e affitti, la soglia per la vita dignitosa si aggira su 7-8 volte tale valore); costruire conflittualità significa riuscire ad immaginare un reddito slegato dallo sfruttamento della persona e un lavoro teso al miglioramento della vivibilità del territorio che viviamo.

Crediamo che il campeggio che stiamo costruendo debba riuscire, attraverso il contributo dei compagni e delle compagne, a descrivere quelle caratteristiche che ci permettano di immaginare una prassi contestuale in grado di realizzare, in vari punti geograficamente distanti, stralci del nuovo mondo possibile.
Riteniamo che la società in cui vorremmo vivere debba fondarsi su un lavoro comunitario, difficilmente concepibile all’interno della cultura capitalista, che possa salvaguardare le differenze di genere ed etniche, valorizzandole e ritenendo fondamentale, all’interno di una società liberata, la liberazione di tutti e tutte i subalterni e le subalterne. Crediamo che nella società futura debba esistere una centralità eterogenea che salvaguardi le minoranze e miri a valorizzare le comunità attraverso una produzione non destinata all’arricchimento del padronato ma alla vivibilità dei territori.
Per raggiungere tale scopo abbiamo pensato ad un campeggio in cui assemblee plenarie e ed eventuali tavoli specifici possano trovare un interscambio capace di restituire una prassi complessiva che assuma carattere progettuale e conflittuale, capace di uscire dalla resistenza che assume, oggi, sempre di più caratteristiche ideologiche, ottenendo sempre meno vittorie e aumentando notevolmente il peso della repressione e della criminalizzazione delle lotte.

L’assemblea plenaria della prima sera mirerà alla costruzione delle giornate seguendo le tematiche proposte delineando gli obiettivi politici che il campeggio mira a sviluppare. L’ultimo giorno punterà a trovare una sintesi pratica tra i vari assi fondamentali delle tematiche sviluppate cercando, inoltre, di dare una risposta alla crisi della rappresentanza che più volte riduce il numero dei partecipanti alle varie lotte territoriali (pensiamo ai 5 stelle e all’enorme moltitudine di militanti che ha convogliato in percorsi istituzionali raramente capaci di spostare qualcosa in termini di dignità del vivere quotidiano).

 

Gli assi tematici individuati verteranno:
– sulla rappresentanza, intesa come la capacità di una collettività di esprimere una visione di sé capace di attirare e consapevolizzare gli altri e le altre, nonché come la capacità concreta di immaginare un altro modo di esprimere la governabilità e soprattutto l’auto-governabilità territoriale,
– sulle lotte ambientali, quali elemento pratico di trasversalità vissuta che deve, probabilmente, ancora trovare una connessione immediata tra lotta alla grande opera e lotta al capitalismo in quanto matrice della devastazione territoriale,
– sulla questione di genere, ritenuta fondamentale in ogni rivoluzione per lo sviluppo e la salvaguardia degli obiettivi stessi che una lotta di liberazione si pone,
– sull’educazione popolare, come volano di cambiamenti culturali che rendano, chi attraversa tale percorso, elemento connettivo e protagonista del rione in cui abita,
– sul reddito, inteso come quell’insieme di produzioni capaci di offrire una vita dignitosa e socialmente impegnata e una direzione ai molteplici percorsi di educazione popolare che possono essere attivati. Il tutto all’interno di una cornice di democrazia diretta che, mediante un metodo condiviso e formalizzato, sia in grado di direzionare a sinistra nella pratica della partecipazione e della condivisione tra gli abitanti di una città che sia essa una metropoli o un piccolo paesino,
– sulla repressione, intesa come elemento atto a reprimere una classe sociale in ragione del dominio della classe governante,
– sull’immigrazione, intesa come quel fenomeno di impoverimento innescato dalle lotte imperialiste che sul territorio ospitante alimenta xenofobia, innescando guerre tra poveri che invece dovrebbero diventare “alleanze tra poveri” in ragione di un lavoro e di un reddito dignitosi a livello universale.

Riteniamo fondamentale finalizzare le discussioni ad alterità-aggregazione-riproducibilità e linguaggio. Tali finalità potranno subire variazioni e/o implementazioni nell’eventuale dibattito telematico che potrebbe nascere sul blog tematico dedicato al campeggio, il veicolo principale che ci permetterà di confrontarci con realtà geograficamente più distanti. Invitiamo, quindi, tutti e tutte i compagni e le compagne a pubblicare on line spunti di riflessione che possano agevolare il raggiungimento dell’obbiettivo del campeggio: COSTRUIRE UN PROGETTO ANTAGONISTA, uscendo da qualunque visione ideologica e dando carattere quanto più scientifico agli esperimenti sociali ipotizzabili, in grado di praticare l’altro mondo possibile a cui tutte e tutti le subalterne ed i subalterni ambiscono affinché il capitalismo non continui a riciclarsi sacrificando, sempre più, i diritti dell’umanità intera.

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